«Riporterò a casa i nostri ragazzi», aveva promesso Trump in campagna elettorale; gli americani gli hanno creduto e lui tenta di mantenere la parola data.
Nei primi giorni di marzo il Segretario di Stato Mike Pompeo, dopo estenuanti trattative con i Talebani durate anni, è volato a Doha per firmare una pace che ha lasciato perplessi quasi tutti gli osservatori.
In primo luogo perché il governo ufficiale del Paese non ha partecipato alle trattative e adesso dovrebbe mantenere gli impegni presi da Pompeo.
Anche se vi avesse partecipato, la cosa sarebbe stata ininfluente, dal momento che esso controlla appena il 35% del territorio.
In secondo luogo perché i Talebani non depongono le armi e genericamente si impegnano ad amministrare il Paese in accordo con il governo in carica.
La guerra voluta dal presidente Bush è durata 19 anni. Il bilancio (attuale) dei morti è il seguente: 31.000 civili per i bombardamenti o negli scontri a fuoco; 80.000 soldati Talebani e militanti afghani; 3.500 soldati della coalizione fra cui 54 italiani.
A ciò si aggiunge che il Paese è stato profondamente infiltrato da guerriglieri di Al Qaeda e Isis, che i Talebani si sono impegnati a neutralizzare firmando la pace di Doha.
Gli americani si preparano ad abbandonare il Paese nei prossimi 13 mesi nel caos e nella miseria, consegnandolo – di fatto – nelle mani di coloro contro i quali hanno combattuto.
Per Trump dopo 19 anni di conflitto qualunque pace va bene e sembra che gli elettori non gli diano torto.
Ma in realtà si è trattato di un secondo Vietnam che i media statunitensi si sono guardati bene dal documentare, al contrario di quanto era accaduto nella penisola indocinese, allo scopo di evitare un altro trauma morale<7b> nel Paese.
Entro 14 mesi tutti i soldati statunitensi dovrebbero essere a casa e nei prossimi 3 la loro presenza dovrebbe ridursi da 13.000 a 8.600 unità.
Non vi è alcun motivo per pensare che l’integralismo talebano in questi anni si sia addolcito, anzi ci sono ottime ragioni per prevedere la loro effettiva presa del potere a Kabul e la rinascita dello Stato islamico.
La mossa di Trump può anche essere elettoralistica, ma la realtà vera sta in quelle montagne altissime impossibili da scalare, in quelle strade larghe tre metri in cui, facendo saltare i cingoli di un carro si ferma tutta un’autocolonna, sulla quale i cecchini Talebani possono fare il tiro a segno.
Fra il 1979 e il 1989 neanche il formidabile corpo di spedizione russo, formato da seicentomila uomini, dopo aver invaso il Paese, era riuscito a piegare la resistenza dei Talebani, pur senza risparmiare mezzi e vite umane.
La popolazione non è solidale con nessuna delle parti in causa e vuole solo sopravvivere. I Talebani promettono che lasceranno che le ragazze vadano a scuola, ma avvertono anche che le tradizioni islamiche non saranno abbandonate.
L’amministrazione Trump sembra interessata solo a sganciarsi, e per ottenere questo risultato è disponibile a pagare in rate annuali la ricostruzione.
Anche Mosca ha promesso all’Emirato locale – che dovrebbe nascere – aiuti concreti. Le donne sono molto spaventate e cercano in tutti i modi di andare all’estero, magari vincendo una borsa di studio dovunque essa possa trovarsi.
Non credono che i Talebani di oggi siano diversi da quelli di ieri: a Kabul negli attentati degli islamisti sono morti circa 45.000 poliziotti.
I campi di papavero non sono stati toccati e nessuno capisce il perché. Oppure, se