Il saggio di Vittorio Raschetti pubblicato su FYINpaper (17 luglio) mi ha spinto a far presente all’autore alcune riflessioni.
Ho invidiato a Castellani la qualità dell’interpretazione di cui si parla nel saggio. Quando – circa mezzo secolo fa – vidi per la prima volta tre tele sue (in casa di un grande gallerista, Carlo Grossetti, in via dei Piatti a Milano), insieme con qualche lavoro giovanile di Spagnulo, altri del dimenticato Hoinka e soprattutto quelli di Kolibal, mi sono immediatamente reso conto della capacità selettiva di Grossetti, del suo coraggio e della qualità del suo lavoro. Ero troppo timido per approfittarne, anche se a quell’indirizzo mi ci aveva spedito Pierre Restany (allora mi affacciavo cautamente al mondo dell’arte).
La “vibrazione” di cui parla Vittorio Raschetti mi colpì già allora e non mi ha più abbandonato tutte le volte che qua e là nel mondo mi sono imbattuto in un lavoro di Castellani. L’ultima volta da Lia Rumma a Milano: una grande tela che “si mangiava” tranquillamente ogni altra opera esposta per documentare l’intramontabilità della Optical Art.
Ma è detto tutto? Mi viene in mente che l’attenzione che l’artista pone nelle sue tele potrebbe essere paragonata a quella di Flaubert sulla pagina da stampare: mai più di una al giorno, anzi spesso una a settimana. Tutto all’opposto di un Bonalumi o di un Simeti, che per un certo tempo hanno diviso la scena con Enrico Castellani.
Cosa deve fare un artista altro che delimitare uno spazio e occuparlo come se fosse il mondo, il suo mondo, ma anche il nostro? Una lezione di rigore e di purezza, una lezione di Minimalità che è raro oggi incontrare. Il mondo in qualche centimetro quadrato, il mondo della tensione creativa, niente facili simbologie, niente interpretazioni astruse, niente elucubrazioni attraverso incubi personali, un mondo di linee e piccoli rilievi, di colori elementari bianco e grigio, un mondo aggredibile con gli strumenti a disposizione da sempre, un mondo finalmente modesto, senza grandi voli pindarici (siamo artisti, dopo tutto, non pretendiamo di spostarlo più di tanto!): “il mondo in un cassetto”.
Ma è detto tutto? Quando, anche in questo caso più o meno mezzo secolo fa, incontrai la Natività di Piero della Francesca a Londra rimasi di stucco, in tutti i sensi: ne era rimasto solo poco più della metà, ma era bellissimo. Il tempo era intervenuto pesantemente e Piero sarebbe svenuto a vedere la sua tela così mal ridotta, ma per me essa conservava ancora tutta la sua forza.
Il Tempo, già, questo terribile signore delle nostre vite e, soprattutto, della nostra fine e, purtroppo, di quella delle persone e delle cose che amiamo. C’è, il tempo, nei lavori di Enrico Castellani? Non il tempo esecutivo, non il tempo interno all’opera, intendo il tempo esterno, quello della vita, quello di Beuys, come quello di Opalka. Il tempo della sporcatura del fattorino che sposta il tuo lavoro, il giallo che insidia la superficie purissima del tuo bianco (di zinco, di titanio o addirittura d’argento). Il tempo che ha ridotto le opere di Piero Manzoni a pura teoria!
La questione è ardua, me ne rendo conto.