Come affrontare la ricostruzione dell’economia dell’Unione nella fase di inizio del superamento della pandemia, e dopo? Nove Paesi – prevalentemente mediterranei – vorrebbero ricorrere a un nuovo debito pubblico collettivizzato, ovvero emettere Eurobond di cui tutti i Paesi interessati potrebbero fruire. La Germania e altri tre Stati si rifiutano, probabilmente ritenendo che questo debito sarebbe male speso da amministrazioni di Stati infiltrati dalle organizzazioni malavitose, o comunque storicamente incapaci di gestire bene le risorse di cui dispongono.
Avere denaro in comune con scialacquatori è inaccettabile, e chiedono garanzie: riforme sociali al risparmio, pensioni più tardi possibile.
Si tratta. E fra i due blocchi si profilano compromessi che non sono accompagnati da grandi manifestazioni di ottimismo e fiducia reciproca. E i motivi ci sono. Il primo è che questa sarà una crisi globale come mai è avvento dalla fine della seconda guerra. Quindi è estremamente difficile valutarne le conseguenze sulle singole economie. In secondo luogo, questa crisi non arriva in un momento espansivo dell’economia mondiale – che si è concluso qualche anno fa – ma in un panorama recessivo già di per se stesso difficile da affrontare.
Questo in un quadro caotico di tutti contro tutti – ci riferiamo alle superpotenze – e con un’Europa che ha appena perso un pezzo importante dell’Unione, la Gran Bretagna. È comprensibile che ciascun governo pensi ai propri concittadini prima che a quelli dell’Eu. Per tutti gli intellettuali tedeschi, italiani e francesi sarebbe il momento di fare massa critica, di approfittare di questa pandemia per sperimentare coraggiosamente nuovi meccanismi economici, riallocare in casa produzioni che diano lavoro.
Importante poi rivedere la distribuzione della ricchezza fra le classi sociali, combattere la precarietà e il lavoro nero, pianificare l’espansione edilizia, rivalutare i medi e piccoli produttori in funzione sociale e non solo dal punto di vista della convenienza economica dei giganti del Web. È sicuro che bisognerà chiedere grandi sacrifici ai lavoratori e, forse, anche un piccolo blocco della crescita. Ma essi saranno accettati solo in presenza di concrete e precise promesse di ripresa, che almeno giovino al futuro della prossima generazione. La globalizzazione può aspettare.