TEL AVIV – Definirla “Unione” è difficile. Sotto lo schermo di un’ampia ed estesa oggettività, i membri dell’Unione Europea spingono per posizioni individualistiche, prettamente soggettive.
La discussione collettiva è affidata alla superiorità tecnocratica, alla disciplina, alle singole necessità, alla ricerca del consenso immediato che prevale sulla visione strategica. Le ragioni di comodità e vantaggio soffocano ogni valore. Sembra così lontana la “logica dell’unità” dei padri fondatori, l’opposizione agli antagonismi tra le istituzioni, quell’Europa che si entusiasmava. L’Europa di oggi annaspa tra incertezza e instabilità, depressione economica, sfida all’ordine liberale. Mastica slogan, tracima provocazioni, chiama insolenza. Ogni offesa è stimolo. E poi, il riaccendersi dei populismi, la retorica dell’invasione, l’imbarbarimento del dibattito. Scontro di civiltà. A sessantadue anni dal Trattato di Roma, l’intelligenza critica fatica a districare i nodi della stasi del progetto europeo. In questa arena, Bruxelles fronteggia ancora crisi ed equilibri precari. «L’Europa si sta sgretolando», afferma Meir Litvak, 61 anni, storico israeliano, docente alla Tel Aviv University. Tutto ciò accade sotto il peso della polarizzazione economica e politica.
Professor Litvak, come percepisce l’Europa?
«Ci sono intenti comuni, convergenze strategiche, alleanze, ma non c’è coesione reale. Quindi, debolezza. E poi, diffidenza – in primis da parte della destra israeliana – perché le istituzioni europee sono inclini a una politica estera filo-palestinese».
Il soft power dell’Unione Europea contro lo hard power di Israele.
«Non sono un sostenitore di Benjamin Netanyahu, però l’Europa dovrebbe smetterla di criticare Israele e iniziare a comprendere le scelte politiche del Likud, a volte necessarie».
E, naturalmente, scelte condivise e sostenute a partire dal presidente americano Donald Trump.
«Il forte legame tra Netanyahu e Trump, nonostante contribuisca ad allargare le distanze tra Israele e i suoi principali alleati in Europa, continuerà a svolgere un ruolo importante nella sicurezza del Paese».
La sicurezza è anche il mantra dell’estrema destra europea. Uno schieramento che si oppone all’establishment e diventa causa di una nuova ondata di nativismo e neo-nazionalismo all’interno di una sempre più crescente instabilità. Si tratta di una politica viscerale, istintiva, figlia dell’egoismo?
«È figlia dell’interesse nazionale che rimane al di sopra dell’interesse comune. Il nazionalismo etnico è centrale nella narrazione politica della destra, schiaccia il progetto europeo, forse troppo ambizioso, e influenza il sentimento populista».
Il conservatorismo può trasformarsi in radicalismo reazionario?
«Sì. La sua forza si basa sulla “targettizzazione” di gruppi esterni: l’altro, il diverso, lo straniero».
Facendo leva su angoscia e xenofobia, i partiti di estrema destra vedono nel’Islam fondamentalista un pericolo per la società. Sarebbero i musulmani il primo target?
«Non solo. Sono a rischio anche gli ebrei. L’ascesa del populismo ha creato un crescente senso di preoccupazione e sospetto tra le comunità ebraiche. In Francia, Marine Le Pen col suo Front National (FN) e candidata alle elezioni presidenziali nel 2017, ha ricevuto il 34% dei voti. In Germania, Alternative für Deutschland (AfD) – partito ritenuto antisemita e razzista – è entrato nel Bundestag nel 2017 con 94 seggi, pari al 12,6% dei voti. In Austria, Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ) è entrato al governo col 26% dei voti nello stesso anno. In Ungheria, Jobbik, partito accusato di glorificare le politiche filo-naziste nel Paese durante la seconda guerra mondiale, detiene, col 20% dei voti, 26 posti nell’Assemblea nazionale ungherese dopo le elezioni del 2018».
Eppure la destra unisce xenofobia e un forte sentimento pro Israele, come dimostrato da FN e FPÖ.
«L’establishment ebraico tradizionale continua a guardare questi partiti con sospetto perché l’antisemitismo endemico all’interno dell’estrema destra non è diminuito. É solo celato da un messaggio populista anti-islamico dettato da convenienza politica».
Netanyahu, però, non si è fatto problemi a stringere la mano al Primo ministro ungherese, Viktor Orbán.
«Bibi è stato accusato di abbandonare le preoccupazioni degli ebrei ungheresi in cambio di tiepidi legami bilaterali tra le due nazioni. Ha scontato la pena».
Gi ebrei europei si trovano ora in una complicata posizione tra destra populista e “nuova” sinistra. Cosa ne pensa?
«La sinistra europea è ipocrita e paralizzata dalle intimidazioni. Biasima Israele, ma tace di fronte alle violenze perpetrate dal regime iraniano. Hassan Rouhani gli omosessuali non li fa sposare, li impicca. Le donne non fedeli al marito le fa lapidare in piazza. Perché l’Europa non condanna tutto questo? Il Labour di Jeremy Corbyn, la sinistra socialdemocratica inglese, non fa eccezione: è dichiaratamente antisemita».
Jeremy Corbyn condanna la politica di Benjamin Netanyahu in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e simpatizza con la lotta palestinese. Forse condannare un’azione non vuol dire condannare un’identità.
«D’accordo. Ma osserviamo: il leader del Labour omaggia la tomba di chi ha compiuto il massacro alle Olimpiadi di Monaco nel ’72, partecipa con nonchalance a conferenze insieme ai leader di Hamas condannati per aver orchestrato una serie di attacchi terroristici durante la Seconda Intifada; bene, tutto questo significa non solo che qualcosa non va in Corbyn, ma qualcosa non va anche nell’Inghilterra dato che lo ha messo a capo del Labour. Cioè, dove si annidano gli attivisti del BDS» (Boycott Divestment Sanctions).
Cioè, il Movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni contro Israele che da oltre un decennio punta all’isolamento dello Stato ebraico a livello internazionale. Ma, secondo lei, in che modo lo fa?
«Il movimento rifiuta il diritto di Israele ad esistere come patria del popolo ebraico all’interno di qualsiasi confine. Gli attivisti, quelli che operano al di fuori dell’area palestinese, sono in ogni angolo del mondo. Una denuncia trasversale all’interno dell’Unione Europea che sta rafforzando l’apparente legittimità morale del gruppo, capace di plasmare il discorso internazionale. Una minaccia reale. Per noi israeliani, la più forte in Europa».
Più forte dell’estrema destra e dei movimenti neo-nazisti?
«È una domanda difficile. Sulla pericolosità degli estremismi politici non c’è dubbio, ma ciò che rende più temibile il BDS è l’attacco diretto alla legittimità morale e politica di Israele».
Divergenze politiche a parte, quella tra l’Unione Europea e Israele è una storia lunga e consolidata, tra l’altro caratterizzata da solida interdipendenza e cooperazione. L’Europa è il principale partner commerciale di Israele, il numero uno per esportazioni e importazioni davanti a Usa e Cina. Un valore commerciale che nel 2018 è stato pari a 34,3 miliardi di euro e cresciuto, dal 2014, di un tasso medio annuo del 5,7%.
«L’Europa è essenziale per Israele. Lo è da sempre. Dagli anni Sessanta, da quando il mercato europeo è diventato la piazza più rilevante per lo Stato ebraico. Un trend positivo rafforzato dall’accordo di Associazione tra Israele e l’UE del 1995, entrato in vigore nel 2000. Un accordo mirato all’espansione delle aree di interscambio e al rafforzamento delle relazioni economiche tra i due paesi. E poi, l’Action Plan nel 2005 che ha sancito l’accettazione di Israele nella Politica Europea di Vicinato (ENP). Questo ha fatto fare un bel passo avanti nelle relazioni UE-Israele e ha provocato altri significativi accordi. Ad esempio: maggiore liberalizzazione in campo agricolo (2010), agevolazione del commercio di prodotti farmaceutici approvati in Israele (2013), e poi ancora apertura delle compagnie aeree europee nel mercato israeliano (2018), l’ingresso di Gerusalemme nel programma UE dedicato alla ricerca e all’innovazione (Horizon 2020)».
Il futuro come sarà?
«Incerto. L’Europa non sembra avere la forza necessaria per rispondere alle cause che hanno portato all’instabilità. E se le tendenze nazionaliste e separatiste continueranno a prevalere sull’ideale di unità, sarà difficile preservare la tradizione democratica dell’Unione europea stessa».
Nicole Di Ilio, giornalista tra Italia, Europa, Medio Oriente