Gli ultimi incendi catastrofici si sono verificati in Australia. La causa della maggior parte degli incendi australiani è stata naturale, con solo 24 arresti ufficiali per incendi dolosi (tuttavia alcuni siti di informazione, diffusi attraverso i bot, hanno menzionato la falsa notizia di 200 arresti). Per contro, i grandi incendi tropicali in Brasile e in Africa, che rappresentano oltre 1,6 milioni di ettari bruciati nel 2019 (University of Maryland; Global Forest Watch), sono in gran parte dovuti alle attività umane. Inoltre, sebbene non ampiamente pubblicati, dal 2019 sono scoppiati molti incendi anche in Siberia, che hanno rilasciato circa 166 tonnellate di CO2.
È quindi ovvio che stiamo vivendo una fase di grande distruzione della fauna e della flora, della produzione di ossigeno, cose che contribuiscono fortemente alla crisi del cambiamento climatico. Un recente articolo di Science News ha messo in luce la ricerca su un ulteriore problema, cioè gli effetti delle nubi causate dagli incendi sullo strato di ozono. Di solito i fumi non raggiungono altezze così elevate. Tuttavia, ciò che la ricerca ha dimostrato, è che con così tanti incendi concentrati in una piccola regione geografica il calore può spingere il fumo a livelli elevati.
Il fumo può persistere nelle regioni più alte dello strato di ozono fino a otto mesi, danneggiando lo strato di quest’ultimo e attenuando la luce solare sulla terra. A lungo termine, la riduzione della luce potrebbe danneggiare l’agricoltura, ma per un breve periodo. Tuttavia, una volta dissipati, gli effetti del danno all’ozono possono rimanere a lungo termine.
Gli interessi economici sopravanzano a ogni costo.