Nel corso dei secoli, il significato e le modalità di viaggiare sono mutati continuamente. Un grande cambiamento è avvenuto a cavallo tra i secoli XVII e XVIII: se prima di allora chi si metteva in viaggio lo faceva per fuggire da guerre e carestie o per motivazioni di carattere religioso o commerciale, nel ‘700 i giovani dell’aristocrazia europea inventarono una nuova tipologia di viaggio: il Grand Tour. Si trattava di un vero e proprio tour dell’Europa continentale, alla ricerca delle antiche testimonianze della classicità greco-romana. In questo senso, il viaggio rappresentava il coronamento di un percorso di educazione e formazione, segnando il passaggio dei giovani rampolli della borghesia all’età adulta.
In poco meno di tre secoli, e soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, da fenomeno elitario qual era, il viaggio è diventato accessibile a tutti i ceti sociali, trasformandosi in fenomeno di massa. Ma quale connotazione ha assunto?
Come tanti altri fenomeni, il viaggio rispecchia pienamente le logiche della nostra epoca: anche l’atto di viaggiare è stato incasellato all’interno di un’industria, quella del turismo, a sua volta assoggettata alle dinamiche della globalizzazione. Intesa come processo di uniformazione e standardizzazione, la globalizzazione sta interessando sia tradizioni culturali, che schemi estetici e architettonici. Pensiamo alle grandi metropoli europee, tutte definite dalla presenza di punti vendita delle medesime grandi marche e dalla diffusione degli shopping mall. In un passato non troppo lontano, l’architetto olandese Rem Koolhaas ha coniato la definizione di “Città Generica”, intesa come luogo anonimo e privo di identità in cui le stesse tradizioni vengono ridefinite come prodotto a uso e consumo dei turisti. Un esempio emblematico di questa tendenza è rappresentato dai personaggi che si travestono da antichi gladiatori romani all’ingresso del Colosseo: storia commercializzata a fini turistici.
In effetti, è sempre più raro fare un viaggio e tornare a casa con la sensazione di aver vissuto un’esperienza unica e irripetibile. Più che assaporare lo spirito autentico del luogo, l’importante sembra accumulare foto ricordo, per dire che sì, anche noi ci siamo stati. Da buoni consumisti, viaggiamo per consumare esperienze, reali o simulate che siano. O meglio, per fagocitarle. Ecco che ambienti del passato e luoghi simbolici possono essere ricreati facilmente anche altrove e riuscire a esercitare sul turista la stessa attrazione degli originali: non importa se stiamo facendo un giro in gondola nella Venezia autentica o nella Venezia ricostruita ad arte a Las Vegas.
Viaggiare, dunque, soddisfa un bisogno irrinunciabile per l’uomo contemporaneo: fare esperienze. Questa tendenza, unita alla diffusione dei viaggi low-cost, ha dato origine alla piaga del sovra-turismo (overtourism). L’Organizzazione Mondiale del Turismo ha stimato che nel 2030 il flusso di turisti nel mondo supererà i 2 miliardi, circa un quarto degli abitanti del pianeta. Sono numeri insostenibili. E insostenibile sta diventando viaggiare proprio a causa dell’estremo sovraffollamento che raggiunge anche i posti più impervi e remoti. Pensiamo, per esempio, agli scalatori che di recente sono morti facendo ore di coda per salire sull’Everest. A pagarne il prezzo è l’esistenza stessa di questi luoghi, che le politiche attuali faticano a preservare in nome dei guadagni economici garantiti da questo tipo di turismo.
È certamente giusto, e democratico, che la fruizione della bellezza, naturale o culturale, sia alla portata di tutti e non di un ristretto numero di ricchi. Ma la bellezza è un bene fragile e prezioso, e in quanto tale va preservato. Quando anche i più remoti angoli del pianeta saranno resi anonimi e consumati dal turismo di massa, che ne sarà della loro bellezza? E, soprattutto, che senso avrà viaggiare?