Al di fuori dell’Ungheria e della Polonia pochi conoscono il significato simbolico della località di Visegrad. In questa città-castello a Nord di Budapest nel 1335 tennero un importante summit tre teste coronate: Carlo I di Ungheria, Casimiro III di Polonia e Giovanni, re di Boemia. Lo scopo dell’incontro era quello di difendere i rispettivi sudditi dalle mire centralistiche degli Asburgo di Vienna. Il patto concluso in quella sede venne quindi considerato come una vera e propria rivendicazione di sovranità nazionale dei tre Paesi: Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia. Nel febbraio del 1991, quasi sei secoli dopo, e non per caso, a Visegrad, si sono riuniti i capi di Stato di Ungheria, Cecoslovacchia e Polonia per elaborare una strategia comune in vista del loro ingresso nell’Unione Europea. Con la separazione consensuale di Repubblica Ceca e Slovacchia, il gruppo conta ora quattro Paesi aderenti.
È impossibile capire il sentimento nazionale di questi Paesi senza uno rapido sguardo al loro passato. La Polonia alla fine del Settecento era stata spartita già tre volte fra russi e tedeschi e nel 1815 al Congresso di Vienna sarebbe stata cancellata dalla carta geografica per i successivi cento anni. La Cecoslovacchia è nata nel 1919, occupata dai tedeschi nel 1939, «liberata» dai sovietici qualche anno dopo e da essi sottomessa fino al 1989. l’Ungheria ha subito la dominazione asburgica fino al 1918 per seguire poi la sorte di Polonia e Cecoslovacchia.
I tre Paesi si sono ribellati più volte – e sanguinosamente in Ungheria – alla oppressiva dominazione sovietica, ma solo nel 1989 con il crollo dell’Urss hanno conquistato la piena indipendenza. È evidente che con questa storia alle spalle, ben differente da quella della maggioranza degli altri Paesi della Ue, l’attenzione alla propria sovranità riveste un peso del tutto diverso. L’idea di dovere rinunciare anche a piccole quote di essa per far parte dell’Unione ovviamente viene percepita con un certo sospetto. In qualche caso il fatto di ospitare consistenti minoranze di altri popoli dell’Europa orientale rende ancora più difficile percepire la propria identità nazionale come stabilizzata e sicura. In questo quadro va visto il rifiuto radicale – e anche piuttosto irrazionale – non solo di ospitare piccole quote di migranti, ma anche di permettere loro il passaggio attraverso il proprio territorio.
Ma non si tratta solo di questo. Nei Paesi di Visegrad i leader con tendenze autoritarie ricevono più consensi che altrove. Le pratiche democratiche da una parte della popolazione sono considerate talvolta pericolose per l’unità della Nazione, oppure una minaccia ai valori tradizionali del Paese, come nel caso di quelli cristiani in Polonia. Il risultato di questo insieme di circostanze negative emerge nelle tensioni attuali con Bruxelles. In Polonia il Pis (Diritto e Giustizia), partito di maggioranza, secondo l’opposizione minaccia la libertà d’espressione, facendo in modo che le aziende di Stato comprino spazi pubblicitari sempre più ridotti sui giornali antigovernativi. In Ungheria si favoleggia di un complotto internazionale – a capo del quale starebbe il finanziere George Soros – che avrebbe come scopo «la grande sostituzione», cioè la sostituzione della popolazione bianca europea con quella nera o musulmana.
Bruxelles ha messo in guardia tutti sul rispetto dello stato di diritto. Che non si metta in discussione la libertà di stampa, l’indipendenza della magistratura e la libertà religiosa. Che le frontiere fra i Paesi della Ue siano controllate ma non chiuse con filo spinato o muri e che le opposizioni interne non siano criminalizzate pregiudizialmente.