Danze post-globali

Danze e culture post-globali
Freedom Sonata, coreografia di Emanuel Gat, ph © Julia Gat, courtesy Teatro Stabile di Torino
Danze e culture

Come reagisce la danza nel mondo post-globale di fronte agli arroccamenti culturali, alle chiusure di orizzonti per mantenere separate, “come in passato”, le arti nobili occidentali da quelle “di minor valore” degli “altri”?

Percorrendo l’itinerario dei festival di stagione, si trovano risposte illuminanti.

I festival fra danze e culture dal mondo

Alla Biennale Danza di Venezia il direttore inglese-globale Wayne McGregor ha voluto invitare dalla Colombia la compagnia Sankofa Danzafro di Rafaél Palacios, già allievo in Senegal di Germaine Acogny, dama-faro della danza contemporanea africana. Il coreografo-direttore ha una mission: dalla insidiosa Medellin rivendica l’eredità ancestrale delle culture portate con sé nel Nuovo Mondo dagli schiavi del Continente Nero.

Al festival Oriente Occidente di Rovereto due proposte afrodiscendenti hanno mostrato invece un innovativo radicamento nel presente interetnico euro-globale, Dub di Amala Dianor, di origini senegalesi e di base francese ad Angers, dove si è formato, e Umuko di Dorothée Munyaneza, ruandese-britannica installata a Marsiglia.

Torino Danza ha invitato l’israeliano Emanuel Gat con Freedom Sonata, opera in bianco e nero, in chiave di mix euro-afro, il portoghese Marco da Silva Ferreira con Carcaça, postcoloniale e multiculturale, e Alonzo King dagli USA con Deep River, intriso di soul, blues e songs in splendido dialogo con i codici del balletto, genere nato bianco nella vecchia Europa.

In Colombia, danze e culture etniche

Il capiente e democratico Teatro Mayor Juli Mario Santo Domingo di Bogotá, attore pubblico-privato, che dal 2010 presenta orgogliosamente tutti i generi di danza, ha coprodotto lo spettacolo di Sankofa Danzafro, gruppo fondato nel 1997 con un nome ghanese, che significa ritorno alle origini con Behind the South: Dances for Manuel.

La drammaturgia è ispirata a Changó, el gran putas dello scrittore colombiano Zapata Olivella, cinque atti densi di nascite miracolose, presagi, battaglie, eroi come Benkos Bioho’, fondatore della prima comunità di schiavi, Palenque, che si auto-liberarono dai padroni spagnoli nel paese latino-americano.

Maschere e costumi, acconciature e accessori danno sapore etnico ai ritmi incalzanti di queste narrazioni programmaticamente identitarie.

“C’è una danza contemporanea nel Sud globale” dice Palacios che rivendica la necessità per i giovani di conoscere la propria tradizione, nelle danze come Currulao, Mapalé, Jota Chocoana che sono tuttora praticate, e nel mantenere viva l’antica cultura politeista Yoruba, come ‘luogo politico’ di incontro e riconoscimento per i neri sfavoriti, figli e nipoti delle genti deportate”.

In Euro-Africa, danze e culture del divertimento notturno
Dub

Se oltreoceano si lavora al recupero della danza di matrice “negra”, in Dub – pratica musicale reggae – di Amala Dianor vibra un’Africa metropolitana, di strada e di suburbio, di nightclubbing e di spazi privati intimi, dove Tik Tok è condiviso con il resto del pianeta e regala spunti per ballare, amoreggiare, scatenarsi, a due, a tre, e individualmente.

Danze e culture post-globali
Dub, coreografia di Amala Dianor, ph Monia Pavoni, courtesy Oriente Occidente

Gli undici interpreti, tutti altamente virtuosi, incontrati dal coreografo in giro per il mondo – egli stesso ex hip hopper – sono europei, americani, africani e uno, il sinuoso Sangram Mukhopadhyay arriva dall’India, da Kolkata, dove ha elaborato un suo idioma, tra Bharata Natyam e Vogueing, con un gusto inter-gender, evidente nelle sue acrobazie sui tacchi alti, come un hijra del subcontinente, un “femminiello” elegante, un “poser” newyorkese.

Dalla discoteca iniziale, con una porta di neon, animata di danze d’insieme vigorose – tutti battono i piedi anche al modo dello slogan ribelle Ce n’est qu’un debut – e di a soli, si passa a tante stanze-cubo, una sull’altra, in verticale, dove accadono più storie di vita, tra amicizie e contese. Tante schegge di un solo racconto generazionale nelle luci fluo e nei costumi urban, in combinazioni inedite di forme e colori forti.

Danze e culture post-globali
Dub, coreografia di Amala Dianor, ph Monia Pavoni, courtesy Oriente Occidente

La danza è ad personam, pantsula sudafricana, freestyle, jumping, breaking, con flessuosità contorsionistica, sulle invenzioni del dj François Przybylski AKA Awir Leon, magnifico batteur, cantante, già danzatore per la compagnia e qui pure impegnato in assolo, ballando con gonna e occhiali.

Dub è su Arte-tv/Youtube e pure sullo schermo dispiega tutta l’energia di un universo multietnico concentrato nello spazio di una notte.

Umuko

Dorothée Munyaneza, artista poliedrica, cantante nel coraggioso film Hotel Rwanda di Paul Rusesabagina, per Umuko, che prende nome da un albero dai fiori rossi e dai poteri curativi, oltre che sacro custode di storie e leggende, è tornata nel suo Ruanda più di vent’anni dopo esserne partita, circondandosi di giovani artisti di Kigali, per danza e musica.

Questi “brand-new ancients”, come sono stati definiti, capaci di guardare avanti senza dimenticare il passato glorioso e anche quello tragico della pulizia etnica, hanno dato vita tutti insieme a Umuko con il supporto di Van Cleef & Arpels e del Fond Culturel franco-allemand.

Danze e culture post-globali
Umuko, coreografia di Dorothèe Munyaneza, ph Monia Pavoni, courtesy Oriente Occidente

Ed è una nuova Africa quella che appare adesso in questo lavoro, consapevole della danza contemporanea internazionale, asciutta, essenziale, così come la musica e la parola poetica, in una sofisticata rarefazione del design luci. Non manca il virtuosismo ritmico della danza africana né il suo senso comunitario-rituale, ma il trattamento è libero, attuale, su chitarra, percussioni, di tamburi e mani, insieme al suono di strumenti peculiari come la kalimba, idiofono a lamelle metalliche.

Da Israele-Mondo

Emanuel Gat, che partendo dalla sua Tel Aviv ha deciso di installarsi in Francia, ha debuttato al festival di Marsiglia e poi a Torino Danza con Freedom Sonata, riunendo un formidabile cast di performer in arrivo da tanti diversi paesi, tra cui Malta, Cuba, Messico, Israele, oltre che da tutta Europa.

Gat mostra qui la sua mano autoriale: un’attitudine impavida verso la musica, in questo caso a forte contrasto; una concezione della coreografia come “piattaforma sistemica di riferimento” per aprirsi alla creatività di improvvisazione dei danzatori; un saldo maneggio di scenografia e luci, usate come elementi-chiave per scandire a episodi la drammaturgia del suo lavoro.

La scelta di mettere in gioco l’album 2016 The Life of Pablo (Pablo Picasso a cui l’autore si è paragonato durante una lectio magistalis a Oxford o forse il signore della droga Pablo Escobar o forse all’apostolo Paolo) del controverso rapper Kanye West (“mi piace Hitler”), tra sermoni e attacchi ai colleghi e colleghe, dannazioni personali, disgrazie familiari, in combinazione con il secondo movimento della Sonata per pianoforte n 32 in Do minore op 111 eseguita da Mitsuko Uchida, pone fianco a fianco cultura alta bianca e sottocultura nera.

La danza B/N dell’orda scatenata si agglutina e si sgroviglia, si concatena e si disfa, senza dare tregua agli interpreti vestiti di bianco, salvo quando stendono a terra con precisione tanti teli bianchi sul tappeto nero di fondo, mentre intanto si cambiano indossando capi neri. Tutto è coerente, rigorosamente B/N.

Portogallo transoceanico, danze e culture sudafricane

Marco da Silva Ferreira, nato a Santa Maria da Feira, già invitato proprio insieme ad Amala Dianor per la creazione Via Injabulo dalla compagnia sudafricana Via Katlehong, nota per il virtuosismo della danza pantsula, con Carcaça, postcoloniale e multiculturale, racconta l’epopea post-imperiale del suo Portogallo con due musicisti, uno elettronico e uno alle percussioni, e dieci interpreti multicolor impegnati in un lavoro di impasto e trasformazione pluri-culturale miscellanea.

Danze e culture post-globali
Carcaça, coreografia di Marco da Silva Ferreira, ph © Joseì Caldeira, courtesy Teatro Stabile di Torino

Carcaça implica agilmente i modi dell’hip hop, del vogueing, del flamenco, del folklore lusitano, facendo del palcoscenico una pista elastica su cui innestare salti e spezzature agili e morbide, da campioni di cultura urbana-crogiolo, dove il kilt può essere fatto di tessuti afro-street e le mantelline rosse infuocate, nel finale, diventano bandiere per una perorazione anti-sistema, inneggiando alle lotte dei lavoratori e soprattutto delle mulheres de trabalho da riscattare.

La danza è politica; l’unione fa la forza, anche nella danza.

America nera, danze e culture, nuove estetiche

Se Sankofa celebra la tradizione della Madre Africa, Alonzo King rende onore alla tradizione della danza accademica italo-franco-russa dei bianchi, piegandola però a una nuova estetica del corpo nero, bello e forte, con le punte del balletto per le sue ballerine vigorose e i virtuosismi sfavillanti dei loro partner poderosi. La sua compagnia, Lines Ballet, un nome che indica la purezza geometrica della tecnica, che ha un valore universale in sé, rende chiaro e lampante, se ce fosse ancora bisogno, che ognuno può indossare la danza che vuole, che non esistono più barriere alla creatività e diversità dei corpi in performance sul pianeta post-globale.

Danze e culture post-globali
Deep River, coreografia di Alonzo King, ph © Jamie Lyons, courtesy Teatro Stabile di Torino