L’imponente mostra alla Fondation Louis Vuitton di Parigi su Mark Rothko è un evento che offre ai visitatori l’opportunità di scoprire l’universo estetico di uno dei pittori più accattivanti della seconda metà del Novecento.
1.
Marcus Rothkowitz nasce a Dvinsk, in Russia, nel 1903. È ebreo. Emigra con la madre e la sorella Sonia per raggiungere il padre, farmacista, e i fratelli maggiori negli Stati Uniti nel 1903, quindi si stabilisce a Portland, in Oregon. Inizia per lui la scoperta di un mondo completamente diverso. Basta persecuzioni, basta pogrom, niente più studi religiosi alla scuola del Talmud Torah. A poco a poco, però, per la necessità di integrarsi, inizia un’impresa assai ardua.
Il suo percorso scolastico avviene senza troppe difficoltà fino al conseguimento del diploma alla Lincoln High School. Nel 1921 fu ammesso alla prestigiosa Università di Yale. Poi si rese conto della sua situazione in questo paese: doveva fuggire dalla piccola minoranza ebraica. Anche se la segregazione che aveva sperimentato in Russia era lontana, il microcosmo ebraico non era ben visto. Durante il periodo di Yale, sviluppa un interesse per le arti. Prima prende lezioni di recitazione, poi entra nello studio di Arshile Gorky alla New School of Design di New York. Quindi passa all’Art Students League e infine alla Educational Alliance Art School. Per guadagnarsi da vivere accetta ogni tipo di lavoro fra cui quello dell’illustratore.
Nel 1928 è invitato a partecipare a una mostra collettiva alla Opportunity Gallery. Un anno dopo accetta un incarico come insegnante presso la Center Academy del Brooklyn Jewish Center che mantiene fino al 1952. Dopo aver tentato la fortuna presso diverse gallerie, decide di unirsi a un gruppo di artisti che si facevano chiamare i Dieci. Cerca anche di integrarsi nel programma di pittura urbana lanciato dal presidente Roosevelt.
A quel tempo dipinge esseri un po’ bizzarri e mostruosi (“elefantiachi” come dice l’autore) accompagnati da macchie di colore informi. Si rivela piuttosto originale, ma non possiede ancora una padronanza assoluta dei suoi soggetti. Partecipa alla mostra “American Art Today”, presentata in occasione dell’Esposizione Universale di New York del 1939.
Nel corso degli anni Quaranta passa dalla sua strana figurazione alla mitologia (fino al 1943), poi, tra il 1944 e il 1946, al surrealismo, quindi alle composizioni multiformi fino al 1949. Infine, si cimenta con l’astrazione assoluta, per poi precipitare in una grave crisi che smorza il suo ardore.
Scopre la missione dell’artista, ma è privo di qualsiasi mecenate. Tornato in sé si rimette in gioco partecipando a diverse mostre con la Federation of Modern Painters al Riverserside Museum. Gli anni della guerra sono “molto turbolenti”: Rothko e i suoi amici criticano aspramente le mostre realizzate per sostenere lo sforzo bellico. Si accorgono che l’arte sta subendo una profonda metamorfosi, un cambiamento radicale al quale contribuiscono sia l’apertura di gallerie europee (come quella di Pierre Matisse) che l’arrivo di pittori e scultori in fuga dall’avanzata dei tedeschi.
Rothko e Gottlieb mostrano il desiderio di andare oltre i loro contemporanei americani. E la fortuna alla fine sorride perché un collezionista acquista alcune sue opere per una considerevole somma. Rothko frequenta poi Robert Motherwell e il critico Harold Rosenberg e stringe amicizia con Clyfford Still, che lavora a San Francisco. Nel 1945, Rothko riesce a convincere Peggy Guggenheim a presentare una mostra personale di Still, che avrà luogo un anno dopo.
Quindi espone alla galleria di Betty Parsons che definirà Pollock, Still, Newman e Rothko i “Quattro Cavalieri” dell’Apocalisse. L’artista russo si avvicina anche all’astrazione e, inoltre, fonda con gli amici la Scuola dei Soggetti dell’Artista. L’influente critico Clement Greenberg inizia a interessarsi a lui: la sua storia personale davvero volta pagina.
Nel 1950 nasce il gruppo Irascible, al quale Rothko non poteva non partecipare, la cui scuola riscuote un grande successo. Nello stesso anno, attacca la mostra di arte americana organizzata dal Metropolitan Museum e critica aspramente la mostra annuale di arte contemporanea del Whitney.
2.
Il figlio del grande artista americano ha raccolto in un unico volume tutte le conferenze e i saggi scritti sul padre. Di quest’ultimo non scrive una biografia, ma piuttosto una serie di riflessioni che gettano luce sul pensiero della sua opera. Essendo uno psicologo di formazione, si è concentrato sull’aggiornamento dello spirito della sua pittura, che è ormai universalmente rinomata. Ciò che emoziona all’inizio del suo libro è l’esposizione dei suoi primi dipinti. Attraverso la sua penna, Christopher Rothko ci porta nei misteri più sottili dell’arte di suo padre così che si possa comprendere il motivo dell’abbandono della prima strada intrapresa. dall’artista.
Ritengo che la parte più interessante sia all’inizio del libro, perché l’autore evoca le sue emozioni e cerca di condividerle con il lettore mostrando dipinti antecedenti al 1940. Ciò che colpisce maggiormente è quanto sia difficile credere che queste composizioni siano state realizzate da Marcus Rotkovitch. Questo processo di derealizzazione non sembra essere stato portato avanti dalla stessa mano, e quindi dalla stessa mente. Indubbiamente, il tatto, il modo di maneggiare il pennello, possono presentare somiglianze se si è disposti ad assumersi questo compito di speleologo della pittura. Ma ciò non spiega l’improvvisa cesura che ha segnato l’inizio degli anni Cinquanta, perché non c’è stata alcuna transizione, neppure minima.
Rothko si muove da una figurazione sempre più orientata verso la mitologia e lo svelamento dell’inconscio, risultando indubbiamente più libero nelle forme, negli accostamenti di figure, nel trattamento dei colori, nelle scale spesso prive di brillantezza. Questo avviene con una grande preoccupazione per il trattamento del soggetto, che diventa sempre più criptico. Tale rinuncia a ogni riferimento al mondo tangibile, e quindi al mondo dei sogni e delle fantasie (presumibilmente sotto l’influenza del surrealismo che aveva trovato rifugio negli Stati Uniti), finisce per portare all’abolizione di ciò che era rappresentazione, sotto ogni aspetto. Ma non rinuncia a rafforzare il legame con lo spettatore, che ora si trova di fronte solo a spiagge colorate. È vero il contrario: meno c’è da vedere, più forte è il rapporto affettivo. Ciò è un paradosso, di fatto è la sfida che Rothko lancia al mondo dell’arte del suo tempo.
Tuttavia, non può essere paragonato a nessuno dei pittori astratti con cui si è evoluto. Non sposa nessuna delle teorie sviluppate a New York durante questo periodo, né ha legami con artisti più solitari, come Clyfford Still o Mark Tobey. Con lui non ci sono dimostrazioni, non ci sono gesti, non c’è geometria, non c’è rifiuto di ogni geometria. No, sono solo strati di piani cromatici, secondo mille e uno procedimenti; ma senza mai deviare da un quadro generale che non negherà mai. Tutta la magia del suo lavoro risiede in questi passaggi meditativi da un piano all’altro e nell’armonia di questi piani.
La sottigliezza dell’analisi di Christopher Rothko non mira a elogiare suo padre, amato e famoso. Piuttosto, è il desiderio di conoscere l’uomo, suo padre, la cui vita si svolgeva dietro una porta, nell’impenetrabile segretezza del suo studio. L’artista e il suo sogno disperato, quello di una ricerca dell’assoluto nella pittura. Chistopher cerca di farci conoscere ciò che per noi è ignoto e per lui era allo stesso tempo familiare e estraneo.
3.
Youssef Ishaghpour si occupa di Rothko in un testo pubblicato postumo (muore nel 2021). L’autore inizia descrivendo il metodo di lavoro dell’artista e le sue conseguenze, prima tecniche e poi linguistiche, con l’obiettivo di spiegare che Rothko non aveva disposto i suoi colori in scatole, ma secondo una geometria interna. Continua sottolineando il fatto che queste provocavano “sonorità”, l’essenza stessa della sua ricerca pittorica. Infine, spiega tutte le variazioni derivanti dalla scelta di utilizzare solo il colore come modalità espressiva. Quella che potrebbe passare per un’ablazione di tutto ciò che un quadro, anche astratto, dovrebbe contenere, insiste nell’abolire ciò che è formale e persino la luce, che emana esclusivamente dai suoi piani colorati. Non sono meno incandescenti.
A poco a poco, si arriva a capire che utilizza una sorta di discorso di metodo per perfezionarsi nel considerare tutti gli aspetti della pratica dell’artista e i suoi effetti sullo spettatore. Non si tratta di un metodo razionale, ma di un metodo che aveva lo scopo di rendere intelligibile il rapporto con la tavola stabilita da Rothko.
Ishaghpour si concentra anche su ciò che ha avvicinato Rothko ai suoi grandi precursori (come Matisse o Kupka, ma anche a Delacroix). Insomma, si tratta di un esame clinico molto avanzato, anche erudito, del “corpo” della pittura del pittore. Il testo, scritto con semplicità e chiarezza, non ha la presunzione di rivelare tutto dell’artista del quale studia le idee radicali e come si collocano nella prospettiva artistica occidentale.
Inoltre, l’autore cerca di dare un’idea di cosa Rothko non voleva fare e di come, negli Stati Uniti, sia diventato rapidamente parte del problema del suo tempo. Questo piccolo libro di Youssef Ishaghpour è un grande libro, che offre a tutti la possibilità di entrare in un universo che sembra non avere limiti fisici, senza essere né religioso né metafisico. È un invito superbo a scoprire i dettagli di quest’arte, il cui impatto può essere percepito sul posto, senza essere consapevoli della sua origine.
Mark Rothko, Fondation Louis Vuitton, Paris, dal 18-10-2023 al 2-4-2024.
Mark Rothko, Annie Cohen-Solal, Folio “Storia”, Gallimard, 352 p.
Rothko, l’interiorité à l’œuvre, Christopher Rothko, Editions Hazan,
Rothko, une absence d’image: lumière de la couleur, Youssef Ishaghpour, prefazione di Michaël de Saint Chernon, Editions du Canoë, 104 p., 14 euro.