La Biennale de Lyon si declina in due aree: ad anni alterni, danza e arti. Nel 2023 la danza con centottantuno performance ha invaso le Usines Fagor, quattro ettari e mezzo di suolo un tempo occupato da una fabbrica di elettrodomestici, diventato hub della creatività contemporanea. Per la sezione Arts lo stesso era accaduto nel 2022.
L’anno scorso i curatori, indipendenti, Sam Bardaouil e Till Fellrath, portarono a buon fine la responsabilità di celebrare il trentennale della manifestazione, nata nel 1991, con un approccio sperimentale e proteiforme, inter-temporale, trans-culturale, cross-disciplinare, che ha sedotto un vasto pubblico.
Sarà Alexia Fabre, direttrice dell’École Nationale Supérieure de Beaux-Arts de Paris e curatrice delle Nuits Blanches nella capitale, a curare la prossima edizione d’arte, la diciassettesima nel 2024. Al suo fianco, nel ruolo di condirettore, il portoghese Tiago Guedes, a capo della Maison de la Danse e della Biennale de Danse. La scelta della Fabre e di Guedes è un segno di come Lyon voglia agire sulla cultura attraverso una chiara sinergia di intenti tra le sue istituzioni più prestigiose . Tutto questo in contiguità fra tutte le arti, in ottica inclusiva e partecipativa, con tante proposte che coinvolgono il pubblico, i giovani, gli amateur, le scuole.
Programmare, per Guedes, danzatore, coreografo, direttore di teatro, curatore d’arte, è in sé “un atto artistico”, allo scopo di fare della Biennale un polo di produzione che si proietta con forza nel panorama internazionale della performatività contemporanea nel senso più lato. La sua Biennale de Danse 2025 si chiamerà Prèsent!, con un gruppo di giovani curatori aggregati. Immersion Fagor quest’autunno ha fatto ballare artisti e pubblico tra danze di sala e hip hop, dilagando poi in tutta la regione ai fini di una ottimizzazione sostenibile.
Boris Charmatz alla Biennale de Lyon
Un focus speciale della Biennale de Danse 2023 è stato Liberté Cathédrale, di Boris Charmatz, nuovo direttore del Wuppertal Tanztheater, creatura di Pina Bausch, con ventisei danzatori, anche del suo gruppo Terrain, e in cinque parti, un titolo simbolico e controcorrente nel nostro mondo secolarizzato.
L’inizio-diluvio è un’incursione a stormo, seguita da cadute e stop a terra, convulsioni, contorsioni, pause, respiri, cantando a cappella il secondo movimento dell’Opus 111 di Beethoven. Segue una sezione cacofonica di campane invasive, battenti, dissonanti, che rendono folli, tra dondolii, spinte, per corpi-corde da tirare e sollevare in alto. Poi arriva il silenzio, per guardarsi dentro, con allusioni segniche a chi non sente gli urli sordi a bocca spalancata delle vittime di abusi, e con l’evocazione delle famose rotture della quarta parete in stile Bausch, entrando tra il pubblico e armando un girotondo con la gente.
Ognuno poi interpreta il senso, esistenziale e religioso, delle parole di un testo di John Donne, “No man is an island / entire of itself…”. Alla fine, è l’organo, assordante, a scatenare ammucchiate di forze opposte come nei ruck e nei placcaggi del rugby, che si scaricano in crolli, disfacimenti delle piramidi umane, duetti di affrontamento corpo a corpo.
Neon bianchi, rossi, gialli, per una visibilità sempre garantita, salvo i “neri” tra un “atto” e l’altro; costumi-non costumi, su base nera, combinati a proprio gusto da ogni performer, giacché gonne o giacche o calzoni o shorts sono indifferentemente indossati da uomini, donne o persone fluid gender con qualche tocco di colore qui e là.
La tempesta psico-fisica dura un’ora e tre quarti, travolgendo occhi e orecchie del pubblico, piazzato su gradinate ai quattro lati della enorme navata industriale, in un gioco al massacro che lascia gli spettatori tramortiti per il tour de force potente di Liberté Cathédrale, nato davvero in chiesa a Wuppertal.
Della stessa autrice: Vino e ballo