La storia si ripete se c’è a chi conviene.
Alla riproposizione di un format che sembrava ormai squalificato dalla storia completo di ogni singolo scadente elemento di sconfortante prevedibilità dobbiamo dissotterrare il kit di sopravvivenza del cittadino capace di sguardo critico.
Minacce, censura, l’alzata di scudi del “noi” e del “loro”, la dietrologia, la scarsità di informazioni per non dire del fumo negli occhi che nasconde la verità e la complessità delle cose. Tutte cose già viste, che già ci avrebbero dovuto fornirci degli anticorpi solidi, concreti, vitali. Istituzioni, intellettuali, narrazioni, giorni della memoria, commemorazioni e pietre d’inciampo, Rai storia, la scuola, il web sempre pronto a rispondere ad ogni domanda non sono bastati?
Dove sono i maestri?
Abbiamo avuto registi come Spielberg, Salvatores, Kubrick che ci hanno parlato della assurdità malata della guerra. Abbiamo avuto cantautori come De Andrè, De Gregori, Guccini che ci hanno detto che rifiutare la guerra non è vigliaccheria. Abbiamo montagne di documentari e racconti, così come testimoni dell’aberrazione della segregazione nei campi di concentramento. Possibile che non sia sedimentato in noi una diga alla devoluzione?
I meccanismi sono gli stessi
Di fronte ai soliti proclami virilistici affamati di eroi portatori di morte dobbiamo dissotterrare le armi del pacifismo. Dobbiamo ricordare le lezioni del passato, riscoprire le pratiche di edificazione di comprensione della realtà. Riscoprire la pratica dell’autocritica, legittimare il dissenso, ribadire la necessità di comprendere le ragioni dell’altro prima di premere il grilletto. Li nella cassa che abbiamo in cantina, sotto tutte quelle videocassette anni ’80 c’è ancora quel cartello Hippie che può, anzi deve, tornare a fare il suo lavoro.
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